Per me, che conosco Chicco dal 1974, quei volti, quelle figure, quegli interventi alla Mostra al Convento del Ritiro in corso in questi giorni, recano un senso ulteriore rispetto a quello atteso. Un senso parallelo e familiare che solo chi sta dalla parte “privata” della sua storia pre-pittorica può avere il privilegio di cogliere.
Non si tratta di un banale dietro le quinte, anzi, non c’entra proprio nulla col dietro le quinte. È qualcosa di molto simile al segnale del televideo, costante e teneramente didascalico sotto le immagini tv, che puoi decidere di sovrapporre o fare apparire/scomparire, ma che comunque sai che c’è, e inevitabilmente (sfortunatamente?) ti condiziona.
Prendo subito “Tocchi sul Giallo” (1987, olio e catrame su tela, sezione “L’aria”), dove quella tensione tra il cerchio verde in alto a sinistra, occhio-sole apparentemente aperto alla possibilità, e il rettangolo-baffo, rosso segreto e irregolare, in basso al centro, il tutto su un piano di giallo definitivo, quella tensione dicevo non può non essere che la stenografia di un nostro gioco scemo di disambiguazione che al liceo facevamo di continuo, interrogazioni comprese. Una specie di anatra/lepre involuta, da noi denominata “radicchio/ravanello”, codificato negli atti attraverso l’indicazione con le dita di parti del volto: occhio=radicchio=affermazione vera; dito a baffo sotto il naso=ravanello=affermazione falsa. Il giochino permetteva di negare/confermare, con gesti segreti, ciò che a voce si dichiarava. Denaro contante per scempi adolescenziali nei confronti di insegnanti, compagni, personale scolastico e noi stessi (a vicenda).
Quando però decidemmo di crescere, e di sublimare quei gesti segreti in agire estremo, artistico, politico, s’aprì il periodo in cui far esplodere gli inermi (fortunatamente pessimi) arancini di una selezionata rosticceria di Grottasanta. Bastava un raudi a garantire quel chernobyl di frittura assoluta su di noi.
Come una coltre misericordiosa, mariana direi, ci avvolgeva calando dall’alto dopo qualche secondo d’attesa, una breve ma godibile doccia di grazia laica e rancida, che poi si prolungava apprezzabilmente in uno strato d’unto sugli occhiali. Ebbene, quella stessa emozione segreta c’è in “Tramonto in Rosso” (1995, olio su tela, sezione “L’aria”), ove l’ultimo bagliore del giallo, facile similitudine con l’olio esausto deflagrato, fa da supporto al cerchio rosso del sole, il vero nucleo-pupilla del gesto artistico dinamitardo, che desidera solo veder brillare la panatura. Il ragù poi, quello, è fin troppo esplicito nei rossi del quadro per aggiungere altro.
Dimenticavo, al Liceo c’è pure stata tutta la parte non-sense (che dura tutt’ora) da onorare. Senza Mario Marenco in tv da Arbore nessuno sarebbe lo stesso, soprattutto noi. Rimando alla visione sul web chi volesse approfondire, ma chi non ricorda l’elegia dell’uto-ato?, che quotidianamente replicavamo in classe nelle ore con la supplente di filosofia, che non si capacitava del concetto. Ecco, ne “Il Sogno di Eva” (2019, tecnica mista su legno, sezione “Il fuoco”) quel suo rigido sgomento intellettuale prima che emotivo, che contraddiceva ciò che avrebbe dovuto professare, è reso perfettamente dal carattere scultoreo del tratto: è lei, assolutamente lei!, che resta a pensare dopo averci rimproverato.
Ma c’è pure stato un periodo in cui abbiamo fatto del cinema, io e Chicco.
È stata la fase più intensa della nostra amicizia. Super8 in bianco e nero e a colori. Iniziammo subito con un mediometraggio sonoro a colori di mezz’ora, in buona parte tempi morti. Fu quando Carlo e Diana vennero a Siracusa. L’idea era di usare quelle immagini per costruire la storia di un furto di denaro con la polizia mobilitata altrove. Ovviamente, cinema sperimentale a tutta forza.
La parte iniziale è di canonico montaggio alternato tra reali inglesi coi sarausani festanti e ladri che rubano. Poi comincia l’hard core del film. Questi ultimi, preso il danaro, vengono anticipati all’interno dell’auto, rimasta vuota (non c’era il “palo”), dalla macchina da presa, anzi dal punto di vista (cinepresa sul sedile posteriore destro). Dovendo sabotare i consueti meccanismi narrativi, il punto di vista che fa?
Che fa, rovina il colpo di scena. Una voce fuori campo dice: “non parte”. E infatti, entrati in auto, la chiave gira ma il motore non s’accende. Così i tre ladri abbandonano il mezzo per fuggire a piedi con la refurtiva per almeno 5 eterni minuti pieni. La macchina da presa, però, rimasta sul sedile a inquadrare per altri buoni 30 secondi l’abitacolo vuoto, a un certo punto muove, raggiunge i fuggitivi e li segue per qualche minuto. Poi li abbandona alla corsa, abbandona la storia, e va per i fatti suoi, affrontando nel mosso, anzi mossissimo, dell’inquadratura finale (altro minutino buono). Asfalto alberi mare… Titolo: “Tremolii”, anno 1985.
Chicco, non so te, ma per me il quadro di quel film è “Il Violinista esultante” (2015, tecnica mista su carta, sezione “Il fuoco”). Il tratto delle pennellate sono le nostre nevrotiche continue correzioni su soggetto e sceneggiatura, gli attori reclutati e scartati (o che ci scartavano), le soluzioni estemporanee sul set, la tensione di dover girare solo una volta data la scarsità di soldi, il sollievo (o l’autosuggestione) di vedere riuscite le scene, il vibrato continuo delle immagini…
E al centro quella figura festante, un Cristo esilarato, siamo noi la sera che abbiamo finito di montarlo, che brindavamo con gli occhi nell’ascensore di casa tua. Ma forse più del quadro suddetto, sono i tuoi interventi spasmodici e sofferti negli incontri dopo le ore 19 in queste sere alla Mostra ciò che più mi riporta a quelle serate di scrittura del film, e in generale alla nostra amicizia, con le discussioni infinite su forma e contenuto, che poi finivano sempre che mi fottevi voltandola sul mistico, livello per me irraggiungibile.
Per tali opportunità che mi hai dato e mi dai, mi considero davvero una persona privilegiata; pur se ancora in credito riguardo la tua produzione pittorica. Ché ancora aspetto il quadro che mi faccia rivivere quella precisa espressione che facesti quando ti spiegai il significato di “vuoto a rendere” scritto sulle bottiglie di vetro.
Lorenzo Gallitto
(amico per sempre)